mercoledì 6 maggio 2020

Introduzione alla teologia morale



 1. La terminologia

Cosa si intende per teologia morale?
Per rispondere a questa domanda il trattato di riferimento è: La teologia morale fondamentale.
Prendiamo in esame le tre parole che compongono l’espressione: 
-  «morale» (aggettivo o sostantivo): è la traduzione letterale del termine latino mos. Moralitas viene tradotto con «moralità». Coniato da Cicerone (106-43 a.C.) sta ad indicare l'insieme dei sentimenti interiori di una persona o di un popolo. L'aggettivo o il sostantivo 'morale' indica, allora, «il comportamento di una persona e di un popolo nell'agire quotidiano»,
- «ethos» è il corrispondere greco che sta ad indicare: «l’insieme dei sentimenti interiori di una persona o di un popolo».
Il termine morale descrive il comportamento di una persona o di un popolo nell’agire.
Il concetto di morale è riferito principalmente all'elaborazione di scelte libere, cioè alla «morale vissuta».
La moralità implica:
1.   Una persona umana o soggetto agente;
2.   Un processo interiore che avviene tramite la «coscienza».
3.   La «libertà»,
4.   I «principi d'azione» o «legge morale».
5.   La responsabilità.

2. Natura e oggetto della teologia morale

La natura della teologia morale va compresa a partire dalla vita cristiana.
La vita cristiana è: un evento storico che origina dalla storica autocomunicazione di Dio in Cristo e dalla libera collaborazione dell'uomo.
La teologia morale è, quindi, la comprensione scientifica e l'esposizione sistematica della vita cristiana.
Essa è, dunque, un sapere riflesso.
Si tratta di quella forma di riflessione morale, operata alla luce di Cristo, all'interno della Chiesa (VS n. 29) ed è caratterizzata dalla «specificità di riflessione scientifica: 
      - sul Vangelo come dono e comandamento di vita nuova,
      - sulla vita "secondo la verità nella carità" (Ef 4 15),
      - sulla vita di santità della Chiesa, nella quale risplende la verità del bene portato sino alla sua perfezione» (VS n. 110).
Ne consegue la seguente definizione: La teologia morale è quella parte della teologia che ha come oggetto l'intelligenza della vita dei fedeli in Cristo.
Il Concilio Vaticano II afferma che la teologia morale deve illustrare scientificamente:
-        «l'altezza della vocazione dei fedeli in Cristo,
-        il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo» OT n. 16).
La riflessione teologico-morale serve quindi:
-        a rafforzare la vita dei fedeli;
-        a spingere la Chiesa all'attività apostolica;
-      a risponde all'esigenza «della vita in Cristo di dirsi in un discorso umano coerente e riflesso».

3.  Lo statuto scientifico della teologia morale

   Il concetto di teologia morale, come intelligenza della vita dei seguaci di Cristo, deve essere ulteriormente precisato.
   La riflessione odierna tende a concepire la vita morale come: il fatto morale. La teologia morale, quindi, ha il compito di spiegare il fatto morale in modo analogo alle scienze della natura.
   Per fatto morale si intende la coscienza che il soggetto ha dei valori e delle obbligazioni morali.
   Compito della teologia morale, allora, è: di fondare l'obbligazione morale e stabilirne i principali contenuti.
   La teologia morale si configura, allora, come un sapere sulle norme morali da osservare, cioè come «morale dell'obbligazione».
   Questa concezione della teologia morale si è sviluppata: 
   -  con l'intendo di dialogare con la mentalità scientifica moderna, 
    -  con il desiderio di rendersi più comprensibile agli uomini del nostro tempo, 
    -  con l'intendo di stabilire che la riflessione morale è un sapere normativo, e non un sapere descrittivo.
    - è un sapere morale che riguarda «il bene e il male degli atti umani e della persona che li compie, e in tal senso è aperta a tutti gli uomini»,
    - è teologia, scienza su Dio, «in quanto riconosce il principio e il fine dell'agire morale in Colui che "solo è buono" e che, donandosi all'uomo in Cristo, gli offre la beatitudine della vita divina» (VS n. 29).


3. Le fonti della teologia morale



Le fonti della teologia morale sono le stesse della teologia. Esse possono diversi in:

-        fonti primarie,

-        fonti secondarie.

Le fonti primarie sono:

-        La Sacra Scrittura

-        La Tradizione

-        Il Magistero

Le fonti secondarie sono:

-        la ragione,

-        la legge naturale,

-        la filosofia,

-        le scienze umane.

lunedì 4 maggio 2020

SALUTO AGLI ALUNNI




Carissimi alunni,

è il 4 di maggio e stiamo uscendo lentamente dalla quarantena durata due mesi.
Le lezioni del II semestre, appena cominciate,
sono state subito interrotte 
dal terribile virus che si è diffuso per la nostra bella Italia.
Nessuno poteva immaginare 
che le lezioni non sarebbero 
più riprese e nessuno sa quando e se riprenderanno!

 Speriamo bene!

Speriamo che si possa svolgere 
alla bene e meglio la sessione estiva degli esami 
con la modalità che ancora non è stata stabilita.

Prossimamente vi invierò, tramite 
il rappresentante di classe il progrmma degli esami 
con la modalità con cui si svolgeranno.

State tutti bene?
Spero di rivedervi presto anche se con la mascherina!
Vi saluto cordialmente e con affetto

P. Carlo Baldini 




mercoledì 9 dicembre 2015

MAPPA STORICA

CAMMINO STORICO DELLA TEOLOGIA MORALE I. Secolo dell’era cristiana (1-100) - Vicenda Gesù - Lettere di Paolo - Lettere apostoliche - Apocalisse II. Secolo (100-150): Padri apostolici - Lettera ai Corinzi di Clemente (papa dal 92-99), - Lettere di Ignazio di Antiochia (75-107), - Lettera ai Filippesi di Policarpo di Smirne (70-155), - Racconto del martirio di Policarpo (155), - Omelia dello Pseudo Clemente (120), - La Didaché (140), - Lettera dello Pseudo Barnaba (140), - Il Pastore di Erma (150). II. Secolo (150-200): Apologisti - Apologisti greci: Aristide (m. 160), Atenagora (m. 175), Teofilo di Antiochia (m. 180), Apollinare (m. 180), Melitone di Sardi (m. 195). - Apologisti latini: Giustino (100-165), Lettera a Diogneto (170), Ireneo di Lione (130-203). III. Secolo (200-300): Scrittori nord africani - Tertulliano (160-220), Cipriano (m. 258), Lattanzio (250-327), Arnobio (m. 327). III. Secolo (200-300): La scuola alessandrina - La sua sede è ad Alessandria di Egitto, fondata da Alessandro Magno (356-323). - La scuola ebbe teoricamente origine con Filone (20 aC – 50 dC). - Rappresentanti: Panteno, Clemente (150-215), Origene (m. 254), Atansio (372). III. Secolo (200-300): La scuola di Antiochia - Fu fondata da Luciano di Samosata (m. 312), - Ne fecero parte: Diodoro Di Tarso, Giovanni Crisostomo (m. 407), Teodoro di Mopsuestia. - C’era una scuola anche a Cesarea di Palestina fondata da Origene. Vi fecero parte Gregorio il taumaturgo, Eusebio di Cesarea (m. 339) IV. Secolo (300-400): Padri Cappadoci - Basilio Magno (330-379), Gregorio di Nissa (m. 394), Gregorio di Nazianzio (m. 390). - In questo periodo insegnò anche Cirillo di Gerusalemme (313-387) - Eventi importanti: L’editto di Milano (313) e il Concilio di Nicea (325). - I Padri Latini del momento: Ambrogio (338-397), Girolamo (347-419), Agostino (354-430), Ilario di Poitiers (315- 365). V. Secolo: (400-500): Padri Occidentali - Leone Magno (400-461), Cesario di Arles (470-543), Martino di Braga (m. 580). VI. Secolo (500-600): Altri Padri - Gregorio Magno (540-604), Isidoro di Siviglia (562-636), Massimo il Confessore (579-662). VII. Secolo (600-700): Fine dell’epoca patristica - Giovanni Damasceno (m. 749) Con la morte del Damasceno si conclude il periodo patristico e ha inizio il cosiddetto Alto Medioevo, il quale lo si fa originare dalla caduta dell’Impero romano d’occidente nel 476 e lo si conclude con il 1066. Quindi inizia il Basso medioevo che si conclude con la fine del 1330. Il secolo VI è un secolo importante per la storia della teologia morale: la diffusione della confessione privata dei peccati fatta non più ad una vescovo ma ad un monaco. Nasce la confessione ripetibile ed ad ogni peccato veniva assegnata una penitenza. Nasce la necessità di redigere delle tabelle con su la lista dei peccati e quella delle penitenze. Questi libri si chiameranno LIBRI PENITENZIALI. Vi sono diverse famiglie di libri penitenziali: - bretoni e irlandesi che si fanno risalire alla metà del sec. VII, - insulari e continentali, che si fanno risali al sec. VIII. VIII. Secolo (700-800) - Rinascita carolingia con Carlo Magno (742-814) - Carlo Magno diviene imperatore la notte di Natale dell’800, - Inizio della scuola pubblica con Alcuino di York (735-804), - Si distingue il genio di Rabano Mauro, abate di Fulda e vescovo di Magonza (780- 856). IX. Secolo (800-900): secolo di passaggio - Viene pubblicato il libro penitenziale più famoso il Corrector sive medicus, parte del Decretum di Burcardo (965-1025), vescovo di Worms - Con i Libri penitenziali nasce la cosiddetta morale casitica o incentrata sull’atto. X. Secolo (900-1000): secolo delle grandi istituzioni - dal 1054 ha inizio il Basso Medioevo con lo scisma d’oriente.. XI. Secolo (1000-1100): Vari avvenimenti - Dissolvimento dell’impero - L’espansione islamica, - Le crociate. Nel 1095 Papa Urbano II proclama la prima, - Scisma d’oriente nel 1054, - Polemica eucaristica con Berengario di Tours, - La figura più eminente fu Pier Damiani (1007-1072), - Da ricordare S. Ildegarda di Bingen (10098-1179). XII. Secolo (1100-1200): è il secolo della rinascita della riflessione teologica. - Viene pubblicato il Decreto di Graziano nel 1140, - Il secolo si conclude con la morte di Anselmo d’Aosta (1033-1109), - Maggiore splendore dell’abbazia di Cluny fondata nel 909 con Pietro il Venerabile (1092-1158)., - La figura di Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) - Nascita delle scuole monastiche 1100. - La scuola di San Vittore (1109) da G. di Champeaux (1070-1122), - Ugo di San Vittore (1096-1141), - Riccardo di San Vittore (m. 1173), - Nascita della scuole urbane: passaggio dal quaerere Deum al quaerere intellectum, - La figura di Pietro Abelardo (1079-1142), - Alano di Lilla (1128-1202) scrive un primo trattato di Morale, - La figura di Pietro Lombardo (1095-1160) scrive Sententiarum libri quatuor, una prima sommo di Teologia. XIII. Secolo (1200-1300) - Secolo d’ora della riflessione teologica - Il Concilio Lateranense IV (1215) - Scuola Francescana: A. di Hales (1185-1245), Bonaventura da Bagnoreggio (1218-1274), - Scuola domenicana: Alberto Magno (1205-1280), Tommaso d’Aquino (1224- 1274). XIV. Secolo (1300-1400): Secolo di grandi vicissitudini - Anno santo di Bonifacio VIII - Beato Duns Scoto (1266-1308) - Guglielmo di Ockham (1280-1343) - Papato ad Avignone 1313-1377) - Gregorio XI riporta il papato a Roma nel 1377 - Scisma d’occidente (1378-1417): il papato perde l’autorità papale. Tre antipapa. - Dalla via antiqua alla via moderna: il problema morale consiste nella possibilità di compiere un atto che può essere buono o cattivo. XV. Secolo (1400-1500) - Nascita diffusione dei Manuali e delle Summe - Affermazione dell’umanesimo - La scoperta dell’America 1492 XVI. Secolo (1500-1600) - Evangelizzazione dell’america - La riforma di Lutero (1483-1546) - La controriforma: Trento (1545-1563) - La Compagnia di Gesù con S. Ignazio di Loyola (1534) - L’accusa di tutti i peccati: numero, genere e circostanza - La Ratio Studiorum dei gesuiti (1599) XVII. Secolo (1600-1700) Il barocco - nascita delle Institutiones morales (1600) ad opera di J. Azor (1536-1603) - Nascita dei sistemi morali: se ne distinguono sette: tuziorismo assoluto, tuziorismo moderato, probabilismo, probabiliorismo, equiprobabilismo, compensazionismo, lassismo, rigorismo XVIII. Secolo (1700-1800) - Il secolo è dominato da Sant’Alfonso M. de’ Liguori (1696-1787). XIX. Secolo (1800-1900): I manuali di morale - La rivoluzione francese (1789) - La diffusione dell’insegnamento morale di Alfonso - Alfonso dottore della chiesa (1871) - Il sistema manualistico dopo Alfonso - Il contributo di A. Rosmini (1797-1855) - La figura di E. Newman (1801-1890) - Il filosofo della coscienza XX. Secolo (1800 fino al Concilio 1962) - Il rinnovamento della teologia morale in Germania (Sailer e Hirscher) - Rinascita tomista (1857 ) - L’Aeterni Patris (1879) - La scuola di Tubinga - La riscoperta delle virtù - Tilmann (1874-1953) e Mersch (1890-1940) - L’influsso di B. Häring (1912-1998) - Il suo manuale: La legge di

mercoledì 7 ottobre 2015

NOI ANNUNCIAMO CRISTO CROCIFISSO

Crofissione di M. Grunewald (1480-1528) dipinta tra il 1512 e il 1516.

Introduzione al corso

PARTE PRIMA La definizione classica di teologia è quella di Agostino (353-430), cioè: theologia est fides quaerens intellecturn. Gli scolastici ameranno dire: credo ut intelligam, itelligo ut credam! La teologia è la fede che cerca di comprendere se stessa e cerca di farsi comprendere dagli altri. E’ l’approfondimento sistematico dei contenuti della fede. Come avviene questo approfondimento sistematico? Di quali principi bisogna avvalersi per conseguire tale obiettivo? La riflessione teologica si è servita di due principi basilari: il principio architettonico e il principio ermeneutico. Il principio architettonico è un mistero fondamen¬tale della Rivelazione che viene scelto perché faccia da base su cui ordinare tutti gli altri misteri ed eventi della storia della salvezza Il principio ermeneutico è quella verità primaria alla luce della quale il teologo cerca di comprendere ed interpretare i singoli aspetti della storia della salvezza. Secondo molti autori, per lo più protestanti, i due principi sono distinti soltanto formalmente non materialmente e cioè: lo stesso mistero che fa da base per la strutturazione della Parola di Dio e da principio di interpretazione della medesima. Invece molti altri autori, fra cui Origene, Clemente Alessandrino, Tommaso, Suarez, Chenu, K. Rahner, Bultmann, Tillich, ritengono che i due principi non sono distinti soltanto formalmente, ma anche materialmente, in quanto il principio architettonico è tratto dalla fede, mentre quello ermeneutico è ricavato dalla ragione, la quale produce la visione del mondo di cui valersi per l’interpretazione del messaggio rivelato. Anche secondo me i due principi sono materialmente distinti e hanno una provenienza diversa: quello architettonico è derivato dalla Rivelazione; quello ermeneutico dalla filosofia. Il principio architettonico è sempre tratto dalla Rivelazione. Questo è indispensabile, perché se anch’esso fosse desunto dalla filosofia, anche se nel sistema fossero incorporati dati biblici, l’insieme non potrebbe avere altro che una visione filosofica, e non una visione teologica. Un esempio classico di detta operazione è quella fatta da Hegel (1770-1831). Nel sistema hegeliano sono analizzati tutti i princi¬pali misteri del cristianesimo, ma privati della loro forza soprannaturale perché asserviti ad un progetto e ad un metodo essenzialmente filosofici. Il principio ermeneutico deve essere di provenienza filosofica, perché il metodo teologico si propone di spiegare la fede alla ragione e di fare acquisire a questa una maggiore comprensione della fede. Questa operazione, ovviamente, non si ottiene con l’aggiunta di qualche altro mistero a quelli che già vengono riconosciuti. Infatti, fede più fede non può dare come risultato nient’altro che fede. Invece è analizzando la fede mediante il lume della ragione che si acquisisce l’intelligenza della fede. La ragione, in genere, dispone di una triplice forma di conoscenza: ordinaria, scientifica e filosofica. Di queste tre forme, quelle che hanno maggiore importanza, per l’intelligenza della fede, sono la prima e l’ultima. Mediante la conoscenza ordinaria, che non è né sistematica né approfondita, si giun¬ge a quella comprensione della fede che è propria del cristiano comune. Vale il detto che afferma: come l’uomo è naturalmente filosofo, così il cristiano è naturalmente teologo. Per contro, facendo ricorso alla conoscenza filosofica, tec¬nica e scientifica, che non è altro che la conoscenza ordinata e approfondita per pervenire ad una spiegazione completa e conclusiva delle cose, si raggiunge quella comprensione ordinata e approfondita della fede che è propria della teologia. Ma, poiché non si dà una sola spiegazione filosofica della realtà, bensì tante quanti sono i sistemi filosofici (e la storia della filosofia ce ne fornisce una grande quantità), ecco che il teologo, per interpretare il messaggio cristiano, ha a sua disposizione non un unico principio ermeneutico, ma molti. La stessa cosa può dirsi del principio architettonico. Dato che esistono molti misteri centrali e fondamentali della storia della salvezza, il teologo ha la possibilità di scegliere fra vari principi architettonici. Sintetizzando: a. I principi su cui si fonda tutta l’attività del teologo sono due, quello architettonico e quello ermeneutico, il primo di origine biblica e il secondo di origine filosofica. b. Sia del principio architettonico che di quello ermeneutico sono possibili molteplici ver¬sioni: di quello architettonico, perché molti sono i misteri che possono essere posti alla base di una sua strutturazione generale; di quello ermeneutico, perché molteplici sono le visioni filosofiche che si possono utilizzare come strumenti di interpretazione della storia della salvezza. Logicamente, il discorso che abbiamo fatto sui principi supremi della teologia, vale anche per tutte le sue parti e quindi anche per la teologia morale. Anche nella elaborazione di questa si adopera un principio architettonico e un principio ermeneutico. 2. La scelta dei principi supremi Ma quali sono le ragioni che inducono il teologo a dare la sua preferenza ad un principio architettonico od ermeneutico piuttosto che ad un altro? Tra i principi ermeneu¬tici perché si sceglie la filosofia di Heidegger anziché quella di Kant, di Hegel, di Adorno, di S. Tommaso? Questo è un interrogativo cui non si può dare una risposta univoca. Molto dipende da come un teologo concepisce i rapporti tra i due principi, e più generalmente tra fede e ragione, tra fi¬losofia e teologia. Se si assegna il primato al principio architettonico, allora si sceglie un mistero e poi si sceglie la filosofia più confacente per l’interpretazione di esso. Se, per esempio, si sceglie il mistero della bontà di Dio, allora è bene scegliere il platonismo; se si è conquistati dal mistero della libertà divina, allora si sceglie l’occasionalismo. Se invece il teologo è preoccupato del principio ermeneutico, con la preferenza di una particolare visione del mondo, allora la scelta del principio architettonico gli viene dettata dalla conformità di un particolare aspetto del messaggio cri¬stiano con tale visione. Generalmente i teologi del nostro tempo danno la precedenza al principio ermeneutico, e subordinano a questo la scelta del principio architettonico. La loro prima preoccupazione è di effettuare una proclamazione del Vangelo che sia intelligibile ed efficace. Ma sanno che per riuscire in questo occorre conoscere la mentalità, le istanze, le attese, il linguaggio dell’uomo del nostro tempo. Anche io seguo questa metodologia, per questo motivo in questa prima lezione getterò uno sguardo sul mondo della cultura attuale, in particolare su quello della filosofia. PARTE SECONDA La mia ricerca teologica da tempo si interessa del rapporto tra cristia¬nesimo e cultura contemporanea, definita cultura postmoderna e intesa come cultura diffusa, luogo dove esercitiamo la nostra libertà. Par cristianesimo va inteso non solo quello del catechismo, delle encicliche, dei manuali e saggi di teologia, ma soprattutto quello delle parrocchie, dei movimenti, delle associazioni, dei credenti di strada. Il nostro tempo, si sa, è un tempo di gradi paradossi, di grandi contraddizione! Mai come in questo tempo sono vissuti così tanti geni teologici (cattolici, protestanti, ortodossi), ma anche mai come oggi è venuta meno la capacità della chiesa di parlare alla gente e della sua dottrina. Non è un segreto che la fede cristiana in occidente, continui a perdere di incidenza, di fascino, di credibilità, di provocatorietà. E dove ancora resiste è una fede stanca, una fede senza gioia. Che cosa dunque è successo al cristianesimo? Sembra avverarsi la triste profezia di Nietzsche (1844-1900) circa il monoteismo e il cristianesimo! Intorno a questa domanda ruota questa mia lezione preliminare, in cui cerco di dare risposte plausibili. 1. Che cosa ci è successo Mi introduco con le parole di Umberto Galimberti (n. nel 1942), studioso attento alle problematiche del nostro tempo. «Gli uomini non hanno mai abitato il mondo, ma sempre e solo la descrizione che di volta in volta il mito, la religione, la filosofia, la scienza hanno dato del mondo. Una descrizione attraverso parole stabili, collocate ai confini dell’universo per la sua delimitazione e all’interno dell’universo per la sua articolazione» (L’ospite inquietante. Il nihilismo e i giovani, 2007). Questo è il punto: l’uomo abita sempre una descrizione del mondo fatta da parole stabilite e programmate. E’ proprio la diversa scelta e composizione delle parole che regge la differente descrizione del mondo, per esempio di un orientale rispetto ad un occidentale. «Basta avere almeno quarant’anni per percepire la sensazione di distacchi epocali da interi mondi di abitudini e di comportamenti perduti, e che si stanno completamente dimenticando» (Aldo Schiavone in Storia e destino, 2007). Gli occidentali sono cambiati nelle loro abitudini e nei loro comportamenti, nel loro modo di vivere e di sognare, di amare e di viaggiare, di lavorare e di attendere alla ricerca della felicità. Un mutamento rapido, repentino, radicale, di cui sfuggono le premesse! Si tratta di un vero e proprio inedito! Anche nella vita della chiesa è possibile verificare cambiamenti significativi. Pur essendo restata, la chiesa, fedele ai segni della cristianità passata, nella maggioranza dei cristiani si è instaurato un regime di dualità tra la vita e la fede. La visione di fede e la preghiera non incidono più sul vissuto quotidiano. Per molti giovani la fede rappresenta sempre più un evento dell’esperienza infantile. L’elemento religioso, pur non scomparso, assume una notevole marginalità. Ma come è potuto accadere tutto ciò? E così velocemente? 2. La perdita di ancoraggio e di coraggio Per cogliere al meglio detto notevole cambiamento è necessario, secondo me, prendere atto che è cambiata la descrizione e, di conseguenza, il concetto di mondo. Il cristianesimo ha, da una parte, perso l’ancoraggio che aveva trovato nelle parole stabili della precedente descrizione del mondo e non ha ancora avuto il coraggio, se non per un breve momento, il Concilio Vaticano II (1962-1965), di confrontarsi seriamente con le nuove convinzioni circa il mondo. Da metà ottocento, è infatti possibile enumerare cinque grandi stagioni di mutazione culturale che hanno messo in discussione, una dopo l’altra, la concezione del mondo. In realtà non si tratta di un processo inedito: si tratta del risorgere delle tensioni della modernità che, a causa delle guerre di religione, erano state sopite. Entriamo nei particolari. 1. Prima tappa. Charles Darwin (1809-1882) scioglie la comparsa dell’uomo sulla terra dal legame con Dio, invitando a considerare l’origine della specie umana, piuttosto che proveniente dall’alto (la creazione), avere una comune parentela con altri animali. E’ un primo attacco alla cultura occidentale! Troviamo, poi, la prima (1864) e la seconda Internazionale (1896), che tentano trasformare la protesta di Marx (1818-1883), «non possiamo attendere il paradiso!», in programma politico. Freud (1856-1839) riformula il concetto di "anima", trasformandola in centro di aggregazione energetico, spogliandola di ogni riferimento trascendentale. L’avvio di quella che normalmente viene indicata come seconda rivoluzione industriale (tra il 1856 e il 1878 e si conclude nel 1890) getta le basi per l’espansione globale del mercato, di cui oggi siamo spettatori, a volte impauriti. In quegli anni si sviluppano, infatti, l’impresa della General Motors (1908) e quella della Ford (1903), nascono la Coca Cola (1886) e la Fiat (1899). La terra non viene più percepita come valle di lacrime, ma come un posto nel quale ci si può agevolmente installare. Viene meno, sentenzia Nieztsche, il platonismo. Viene meno, cioè, un modo di vedere e vivere il mondo secondo una duplicità di piani: quello ontologico e quello assiologico (il mondo eterno e vero, da una parte, il mondo finito e finto, dall’altra) che assegnava una determinata finalità alla vita umana: l’uomo, dotato di un’anima eterna, aveva nel cielo la sua patria. Perde fascino e attrattiva la parola "eternità", mentre assume forte risonanza e consistenza la parola "finitezza". La ricaduta di queste nuove concezioni nella coscienza religiosa è stata enorme e inquietante. Ci si chiede: come si può parlare di un fine escatologico dell’uomo, se non si sa più cosa sia l’eternità? Quale consistenza ontologica attribuire alla realtà di Dio? Non è più il finito a dover rendere ragione di sé rispetto all’eterno, ma esattamente il contrario. Tuttavia i concetti di finitezza e di storicità non sono stati senza ricaduta per il cristianesimo, in modo particolare per capire meglio il problema della rivelazione, dell’incarnazione e del mistero pasquale. 2. Seconda tappa La seconda tappa della revisione della cultura occidentale ha inizio nel primo decennio del Novecento. Accade che non appena il paradiso, ovvero la traduzione popolare della parola "eternità", viene messo tra parentesi, viene meno anche la forza unificante e convergente. Il finito appare subito come luogo di molteplicità, di possibilità infinite, di plurale. Si colloca tra il 1905 e il 1908 una nuova stagione di rivisitazione della rappresentazione classica del mondo. In questo tempo vivono geni come: Einstein (1879-1855), Picasso (1881-1973), Schönberg (1874-1951), Joyce (1882-1941) e Proust (1871-1922), Freud (1866-1939), Thomas Mann (1875-1955), Pirandello (1867-1936), e Kafka (1883-1824), che fanno traballare il primato del vincitore sul vinto, del forte sul debole, del predatore sulla vittima. In questo tempo nasce Kurt Gòdel (1906-1978), il quale sancisce l’impossibilità di rinvenire principi primi da cui derivare la matematica. La riflessione filosofica scopre la fenomenologia di Husserl (1859-1838) e la nascita del pensiero ebraico sull’alterità grazie a Buber (1878-1965) e a Rosenzweig (1886-1929). Attraverso gli apporti di questi maestri inquietanti giunge a compimento la critica alla ragione moderna, troppo violenta, troppo autoreferenziale. Perde di fascino la parola "verità", al cui posto si installa il tema dell’alterità, dell’apertura e ospitalità del diverso. La coscienza del soggetto umano non è più il luogo dove abita solo una verità, ma diventa un "parlamentino": in essa ci sono tante voci, che si sovrappongono e collidono. Non ci sfugga la portata della sfida: l’urgenza di pensare insieme alterità e verità ha portato alcuni settori della teologia a risco¬prire la forza del dogma della Trinità, dove l’unità della natura non sopprime la differenza delle persone. Siamo solo all’inizio di un pensiero e di una prassi trinitari. 3. Terza tappa La terza tappa del viaggio che ci sta portando alla scoperta del nostro tempo ci conduce nei campi di sterminio nazista e di Auschwitz in particolar modo. Qui nel 1942, secondo un’ipotesi di Galimberti, ha origine l’epoca della tecnica, la quale si caratterizza per la ricerca finalizzata al potenziamento dei mezzi più celeri e atroci di far soffrire e uccidere. Questa ricerca segna lo sganciamento della tecnica dal diretto legame con i bisogni del soggetto umano. Si impone l’assioma: ciò che è tecnicamente sperimentabile va in ogni modo sperimentato. E’ l’inizio di quel processo di perfezionamento dei prodotti della ricerca tecnica, che prescinde dalle necessità umane, ma che le ridefinisce di continuo. Questo modello tecnologico ha avuto grande successo per i cambiamenti che ha realizzato nel migliorare le condizioni medie della vita degli uomini: dall’igiene alla salute, dai viaggi alle comunicazioni, ma ha anche inciso sulla concezione del mondo e della vita umana. Il mondo non è più un insieme di sostanze stabili e fisse, ma è costituito da relazioni. La vita umana non è guidata da faticose conquiste da preservare e migliorare, ma da possibilità, da occasioni. Che cosa ne è della legge naturale, in un mon¬do che non ammette più alcun elemento di stabilità per le cose e per le persone? Viene messo in crisi soprattutto il primato dell’aristotelica sostanza, e con essa quello del "giusto mezzo" quale cardine delle virtù. Non dimentichiamo, poi, la forza dirompente dell’olocausto sull’inconscio collettivo per quanto attiene l’immagine di Dio. Di fronte all’olocausto chi ha ragione: il prete che predica la creazione divina degli uomini o Darwin che dimostra la loro derivazione dalle scimmie? Chi ha ra¬gione: il catechista che proclama la santità dell’anima oppure Freud che la diagnostica quale pura energia disponibile tanto all’eros quanto al thanatos, all’amore e alla morte? Quale giustizia divina, quale paradiso, potrebbe risarcire le vittime di Hitler (1889-1945), di Mussolini (1883-1945), di Stalin (1878-1953), di Franco (1892-1975) e tutte le rivoluzioni del secolo breve. Nei campi di concentramento muore il Dio della morale, il Dio che fondava la morale sulla paura! Viene, tuttavia, aperta la via per l’annuncio del volto umano di Dio, rivelato dalle parole e dalla vita di Gesù. La prassi ecclesiale spicciola fatica ancora ad assumere e rendere queste nuove prospettive proposte di evangelizzazione. 4. Quarta tappa La quarta tappa del nostro viaggio ci conduce al fatidico sessantotto, l’anno in cui gli insegnamenti di Nietzsche alimentano la fantasia del cittadino medio. Detti insegnamenti possono essere così sintetizzati: il principio della singolarità, dell’unicità, della corporeità, della musica orgiastica, della scelta, dell’autonomia del soggetto. Tutti elementi che portano all’individualismo. Tuttavia lo slogan più autentico del sessantotto è: "Vietato vietare", con il quale si attacca la tradizione culturale e morale del passato, giudicata eccessivamente irrispettosa della singolarità e della diversità. Ognuno è per sé, e tutti sono uguali! Vengono messe in discussione le forme classiche di vita (matrimonio, paternità, maternità), i ritmi di vita (adolescenza, giovinezza, maturità), i mestieri. Viene proclamata l’emancipazione sessuale e sociale della donna! Più in generale si attacca in modo indiretto un altro grande pilastro della tradizione cristiana e della tradizione occidentale: il pensiero di Sant’Agostino (354-430) fondato sulla parola e sul concetto di "sacrificio": parola chiave, centrale nella descrizione occidentale del mondo. Concetto che ha caratterizzato la concezione sociale e culturale del mondo intero e ancora caratterizza il mondo della povertà e dell’indigenza, con scarsa mobilità sociale, ossia fino agli anni del boom economico. 5. Quinta tappa La quinta tappa ci conduce all’istanza che ha deciso la ristrutturazione della mentalità occidentale circa la crisi dell’autorità, della legge o del riconoscimento del vincolo della legge quale garanzia di una convivenza pacifica. Una decisa svolta contro il concetto di autorità può essere riscontrata: - Nello scoppio e nel proseguo della Seconda guerra mondiale, in cui è prevalsa più l’autorità della forza che non la forza dell’autorità, - Nella lotta contro il terrorismo degli anni settanta, - Nel crollo del muro di Berlino (novembre 1989), - Negli scandali finanziari (in Italia legati all’indagine "Mani pulite"), - Nell’attacco alle Torri Gemelle (11 sett. 2001), - Nella mescolanza delle religioni e delle culture, - Nell oceaniche migrazioni di popoli. Cosa è veramente cambiato? Il punto nodale è che nessuno oggi è in grado di far prevalere le proprie idee invocando il ruolo che riveste. Al posto dell’autorità si è imposto il principio della convinzione. La forma elementare della convivenza è quella della democrazia, che vuol dire: libera determinazione del singolo. Da qui, anche, l’indebolimento dell’autorità nella chiesa e della forma territoriale della presenza ecclesiale, legiferato dal diritto canonico, a favore di una forma di fede che si esplica nei movimenti, nelle associazioni, nelle comunità di base. Nessuno ancora sa come mettere insieme l’autorità e il carisma, divenuti ormai paralleli. In questo modo divengono comprensibili quei sentimenti di spaesamento e di precarietà che emergono in tutti i settori della vita. Quale nuovo ordine è sorto con l’arrivo delle nuove parole chiave dell’occidente: finitezza, alterità, tecnica, possibilità, democrazia? Non è facile dirlo. Restano grandi mutamenti, con tante conquiste, ma anche con grandi sfide. L’occidente, pur essendo in mezzo a un innegabile enorme progresso, ma ad un vacillante benessere, deve fare i conti con il crescente tasso di denatalità, l’inconcepibile blocco della gioventù, la subordinazione delle donne sul piano delle opportunità sociali, lavorative e politiche, la stagnazione economica, la questione del rapporto con il diverso e la sua identità e la sete di giustizia che brucia questo nostro mondo. PARTE TERZA Dovendo descrivere il presente, a partire dalla riflessione filosofica, cioè dalla lettura che del presente ci viene offerta dalla ragione postmoderna, possiamo cogliere due caratteristiche distinte ma complementari: 1. il presente è il tempo del frammento e della molteplicità. La diversità è principio fondamentale che guida l'agire nell'epoca della complessità. La tolleranza è la categoria guida del vivere sociale. 2. il presente è il tempo del dopo, del postmoderno, cioè l'epoca che viene dopo: dopo il moderno, dopo il nichilismo. Dopo le ideologie e dopo i miti, che hanno caratterizzato il pensiero occidentale, generando totalitarismi e violenze. Il presente è anche l'epoca in cui ci sono grandi mutamenti che pongono nuove e urgenti domande, a partire dall'etica (si pensi alla bioetica), per finire alla politica (si pensi alla globalizzazione) e si impongono scelte sempre più pressante (si pensi all’ecologia). Non ci sono più i blocchi di potere a spaventare il mondo, ma l'imprevedibilità di ciò che può accadere. Di fronte ad una estromissione da parte della modernità e del nichilismo che avevano estromesso la religione dallo sviluppo storico, dichiarandone la morte e l'estinzione progressiva, riemergono conflitti epocali e di civiltà che sono di origine religioso. Il presente pone, tuttavia, domande fondamentali riguardanti la vita, la morte, la sofferenza. I fatti epocali, che vanno accadendo, aprono nuovi scenari, il cui principale problema è il convivere di civiltà diverse. Una riflessione filosofica frammentata e disincantata stenta a trovare soluzioni a queste sfide, mentre la gente sente il bisogno di essere riconosciuti e di essere chiamati per nome. 1. La frammentarietà del presente La prima caratteristica del nostro tempo è, dunque, la frammentarietà. La riflessione dell’inizio millennio si muove, infatti, entro un orizzonte unico, le cui categorie dominanti sono: la molteplicità, la pluralità e la differenza. Prendendo in considerazione l'arcipelago di filosofie, di stili di vita e di modelli teorici, si ha l'impressione di avere a che fare con qualcosa «che ha perduto la consistenza di una trama compatta e unitaria». E’ evidente che la totalità, tipica della modernità, ha ceduto il posto al frammento postmoderno e che la divisione e la separazione regnano al posto dell’ordine e dell’unità. Tutto è divenuto più fluido, discontinuo, interrotto. Concepire visioni globali e univoche è ormai impossibile e improponibile. A livello etico riferirsi a valori assoluti è assurdo. In questo mondo in frantumi non è più pensabile un linguaggio o una teoria, capaci di mettere insieme universi inconciliabili. E’ necessario ammettere la pluralità, la caoticità del reale e l'incomunicabilità ontologica delle sue parti. Il postmoderno viene così a significare tutto ciò che ha a che fare con l'eterogeneità, la diversità, la frammentazione, l'indeterminatezza, la sfiducia nelle realtà universali. Si enfatizza, in un certo senso, la parte volatile, caduca, mobile, effimera, insita nella modernità, mentre si è perduto le realtà eterne, il nucleo fisso. Si è venuta a creare, in definitiva, una condizione di tale incertezza, che la riflessione filosofica è rimasta senza fondamenti metafisici, la scienza senza certezza, l'etica senza verità, la politica senza giustificazione. 1.1. La filosofia e il problema del fondamento L'impossibilità di avere visioni globali e univoche e la dispersione e moltiplicazione dei discorsi si suole ricondurla alla crisi dei fondamenti o delle metanarrazioni. Dopo che si è imposto il pensiero di Nietzsche, è avvenuto che il fondamento del pensare è andato in frantumi, per cui non si ha più un unica idea di filosofia, ma una molteplicità di modi di intendere e utilizzare questa parola. Ne consegue che la frantumazione ha originato una pluralità di linguaggi difficilmente riconducibili ad unità. L'uomo post-metafisico può fare a meno delle categorie della metafisica. Piuttosto che con strutture eterne a-priori, si esprime con le categorie di storicità, di temporalità e di finitezza. Sono queste i parametri che l’essere umano esperisce nella considerazione della sua esistenza. Le varie problematiche post-metafisiche confluiscono in un pensiero negativo, nel nichilismo estremo, che si può spiegare con le parole di Nietzsche: «Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al perché?». Il concetto di essere viene concepito, alla maniera di Heidegger (1889-1876), come evento, in quanto questo, identificandosi con il tempo, si dissolve nel divenire, e poi nel nulla. L'essere si risolve nel tempo! L'essere è il tempo! L’essere non è il fondamento, la struttura stabile e in sé, ma il differimento sempre oscillante e vacillante, precario ed evanescente, come assimilato alle forme transitorie della caducità creaturale del mondo storico. L'essere si dà come apparire nelle forme finite, caduche ed effimere del divenire, del nascere e morire. Nessuna struttura stabile ed eterna è possibile postulare. L'essere e la vita sono inclinati verso il nichilismo. L'essere, perciò, si confonde con l'apparire e la vita si riduce ad un mobile gioco di apparenze: «Una tale concezione dell'essere, vivente e declinante (cioè mortale), è più adeguata, tra l'altro, a cogliere il significato dell'esperienza in un mondo che, come il nostro, non offre più (se mai l'ha offerto) il contrasto fra l'apparire e l'essere, ma solo il gioco delle apparenze...». La nostra è l’epoca delle immagini, in riferimento al ruolo sempre più pervasivo che la comunicazione per immagini vi ha assunto. In questo scenario virtuale si realizza una sorta di derealizzazione, di perdita della realtà, cioè l'immagine tende a prendere il posto della realtà e l'essere si risolve nell'apparire. L'attrito con la realtà scompare nel groviglio di immagini che invade i nostri monitor. Si sta, cioè, perdendo la capacità di vedere, al di là della colluvie d'informazione, volti e realtà, messaggi e spunti per la riflessione. La differenza fra realtà e immagine è talmente sfumata che colpire un bersaglio reale, viene confuso col colpire il bersaglio virtuale di un videogame. Nel mondo virtuale la realtà esterna tende a scomparire, ma scomparendo dissolve l’orizzonte oltre il quale ci sono le nostre misure, i nostri schemi. Immagini e parole diventano informazione di superficie, mentre la coscienza vive un profondo senso di solitudine. All'interno di questo quadro di caducità e di virtualità, non si dà assolutezza delle cose, non si dà una sola verità, ma molteplici verità. Ne consegue che la contestualità e la contingenza diventano principi orientativi, in cui si avverte che il legame della ragione postmoderna a orizzonti, tradizioni, e situazioni sia spezzato. «I fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni» e non c'è nulla di ciò che è contestuale che si ponga al di là dell'orizzonte del detto. Scrive Derida (1930-2004), «non c'è fuori testo». Ma se la verità è interpretazione, allora ci sono differenti verità, nessuna delle quali può pretendere di essere assoluta. In altri termini la verità viene rinchiusa all'interno dei diversi orizzonti linguistici che, a loro volta, non rimandano più al di là del linguaggio, ma risultano essere giochi chiusi in se stessi, all'interno delle proprie regole e delle proprie logiche. Da questi orizzonti linguistici non si esce più, né per segnalare un mondo che sta al di là delle parole, né per comunicare con l'altro, che a sua volta è rinchiuso all'interno del suo orizzonte linguistico, le cui regole e i cui significati non sono traducibili e comprensibili per tutti. E’ inevitabile che nell'universo linguistico regni l'incomunicabilità. Il modello di questo sapere, secondo Eco (n. nel 1932), è rappresentato dal labirinto. Si tratta di un pensiero debole, congetturale e contestuale, che non può essere fondato su premesse salde ed indubitabili, su quelli che un tempo erano definiti i fondamenti del sapere. Il sapere nella concezione attuale è senza fondamenti e anche senza verità. Se, infatti, per verità si intende quella realtà che si rinviene nei linguaggi, pregiudizi e prospettive, allora non si dà una verità che abbia la possibilità di confrontarsi con ciò che è fuori, cioè il mondo reale, o con le raffigurazioni ed esperienze del mondo. «Il vero Nichilismo - ha scritto A. D'Agostini - è sapere che il mondo vero non esiste; nichilismo estremo è sapere che non esiste neppure il mondo, e che perciò non c'è alcuna verità né falsità». Questa convinzione implica l'accettazione della perdita del senso dell'esistenza e la definitiva rinuncia al fondamento. Il pensiero rinuncia a cercare e si compiace di questa condizione. G. Vattimo (n. nel 1936) ha scritto: «non vi è alcun fondamento per credere al fondamento, e cioè al fatto che il pensiero debba fondare». La possibilità di poter riunire la molteplicità dei linguaggi in un unico linguaggio (metalinguaggio), che possa spiegare in modo sintetico la pluralità contraddittoria della realtà, viene definita illusione. Il pensiero debole e la crisi dell'ideologia ha segnato, per alcuni i maestri del nostro tempo, il punto di non ritorno. Il relativismo è la convinzione largamente condivisa! Il relativismo radicale ha travolto, dopo il fondamento, i vari saperi, a partire dalla filosofia, coinvolgendo anche il sapere scientifico-tecnico, e, in un modo, particolare l'etica e la politica. 1.2. L'ambito scientifico Il relativismo conoscitivo coinvolge anche la cultura tecnico-scientifica, in quanto la sfida della complessità mette in crisi il dogma dell'oggetto identico, della sua ripetibilità sperimentale e della sua uniformità. Anche la scienza, i suoi dati, l'esperienza, dipendono da teorie, paradigmi, schemi concettuali, modelli, linguaggi. T. S. Kuhn (1922-1996) con il saggio «La struttura delle rivoluzioni scientifiche» (1960), mise in discussione la teoria falsificazionista di estrazione empiristico-razionalistiche di Carnap (1891-1970) e di Popper (1902-1994), sostenendo che il progresso scientifico non è un insieme di conoscenze teso scoprire la verità delle cose, ma un insieme di «rivoluzioni scientifiche», a partire da paradigmi che tendono a specializzarsi. Dava, così, inizio al dibattito sul relativismo nell’ambito della conoscenza scientifica. Con Kuhn tutte le teorie scientifiche diventano «incommensurabili», cioè non è possibile confrontare o commisurare le varie teorie tra di loro e sceglierle, perché non esiste una teoria delle teorie capace di fornire un criterio oggettivo di scelta. La molteplicità, anche in ambito scientifico, non è riconducibile ad unità. Non si parla, infatti, più di un metodo unico, ma di procedimenti scientifici diversi, molteplici e sempre più incerti. Le teorie, poi, vengono considerate sempre interpretazioni. Nello stesso tempo lo sviluppo delle scienze, come la microfisica, ha messo in crisi il canone tradizionale della sperimentabilità, della visibilità, percepibilità ed esperibilità. Quando, infatti, si va alla microfisica i canoni dell'oggettività, dell'osservazione subiscono una trasformazione. Ad esempio, l'illuminazione cui è sottoposta una micro particella può modificarla nel momento in cui vene illuminata, per cui non se ne può mai avere un’osservazione oggettiva. Per il sociologo Feyerabend (1924-1994) lo studio della storia della scienza dimostrerebbe che: la ricerca scientifica è dominata da «miti, suggestioni ed emozioni». Insinua, quindi, il dubbio che nelle procedure cognitive della scienza, nelle quali possono essere presenti fattori di ordine irrazionale, può venir meno la possibilità di un criterio di valutazione oggettiva. In definitiva tutti i vari metodi e procedure «sono soggetti alla stessa variabilità dei risultati che vengono giudicati». In conclusione, se i processi cognitivi della scienza non sottostanno a un criterio oggettivo, allora anche nell'ambito scientifico non si danno più fatti, metodi e certezze, ma solo interpretazioni. Si verifica quella che si è definita «operazione ermeneuta» della scienza, favorendo la situazione d'incertezza. Quindi anche la scienza perde quella forza che le aveva ottenuto la ragione moderna e si scopre debole e incerta. 1.3. L'etica e la politica L'incertezza coinvolge anche l’etica e la politica, che dovrebbero essere a fondamento della convivenza umana. Anche qui ad una ideologia fondamentale si sostituisce una pluralità di narrazioni, il cui senso e la cui logica non sono garantiti da un'idea o verità oggettive. Nella postmodernità non c'è posto per le grandi narrazioni ideologiche tipiche dell'epoca metafisica, perché è venuta meno una qualsiasi procedura tendente a legittimare una qualsiasi verità. Si assiste all'eclissi di filosofie totalizzanti, come il marxismo, che pretendevano di offrire risposte a ogni domanda di senso, a partire da una posizione dogmatica e ideologica. E’ largamente diffusa e condivisa la convinzione secondo cui la nostra è un epoca caratterizzata dal venir meno di tensioni progettuali e ideali, non solo in ambito politico e ideologico, ma anche etico e religioso. E’, anzi, imprescindibile abbandonare qualsiasi idea universalistica come presupposto della partecipazione e dell’impegno nel mondo. Ciò ha riflessi soprattutto sulla politica che, dovendo rinunciare a fondamenti ideologici, deve divenire mediatica e sempre più virtuale. E’ la politica che insegue gli indici di ascolto, che teme i sondaggi e che diventa sempre più videopolitica. L'immagine, anche qui, sostituisce la realtà, per cui si assiste ad una sua progressiva spettacolarizzazione. La frammentarietà è percepibile nello sgretolarsi progressivo delle comunità di appartenenza. Il partito, la chiesa, il paese, la cerchia di persone, sono realtà che vanno erodendosi di fronte all'urbanizzazione, alla diffusione dei mezzi di comunicazione, all'omologazione e all'isolamento della vita metropolitana. La frammentarietà postmoderna si connota anche come condizione di sradicamento e spaesamento. E’ in atto una profonda crisi della comunicazione e della solidarietà. L'epoca postmoderna è incapace non solo di concepire valori ideali eterni, ma anche stabilità. Siamo entrati nell'età dell'esplosione della contingenza. Ognuno si ritrova solo di fronte a scelte difficili e complesse. Il relativismo domina non solo in campo morale e gnoseologico, ma anche nel vivere quotidiano. La perdita del senso della realtà comporta, a livello etico, una strutturale fragilità, che si manifesta nell'incapacità di affrontare le difficoltà delle situazioni, di assorbire i colpi delle inevitabili disillusioni. Nell'epoca della frammentarietà, nell'illimitata pluralità delle auto-legislazioni dei singoli, è destituito di senso tanto il proibire quanto il prescrivere. Si impone sempre di più un buonismo tollerante, che altro non è se non l'assunzione da parte del relativismo morale del principio della differenza e della tolleranza, ma con la perdita di ogni criterio di demarcazione e il conseguente sbriciolarsi di tutto in una pluralità contraddittoria. In altri termini tale atteggiamento morale sconfina nella deresponsabilizzazione, cioè nell'incapacità di assumere responsabilmente una posizione, di sostenere le proprie scelte morali, o, più in generale, di mantenere un'identità. Anche l'identità individuale risulta, infatti, frammentata, indefinita. Piace astenersi dal contrarre impegni a lungo termine, di non giurare eterna fedeltà a nessuno e a nessuna causa, in un certo senso di avere un'identità adottata sul momento, come una veste che si può dismettere e non una pelle, che aderisca «troppo strettamente alla persona». Nell'epoca in cui la ragione sembra non dominare più il tutto e la frantumazione è sentimento dominante, la strategia vincente è quella di astenersi dal contrarre impegni a lungo termine e così dal professare una verità o una religione. Se poi rivolgiamo l’attenzione sul cristianesimo, ci piace mettere in risalto quasi esclusivamente l'aspetto morale. La ricerca e la ragione non sono aperte al trascendente e, quindi, alla fede. La morale senza la fede è impoverita e indebolita. Nell'interpretazione nichilista - si legge nella Fides et ratio - l'esistenza è solo un'opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l'effimero ha il primato. Il nichilismo è all'origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio. A livello etico si afferma un nichilismo dolce, un «fai da te» relativistico, che «prende origine dalla metamorfosi del principio di autonomia» della modernità. Prende origine, dicevamo, ma ne è un riflesso sbiadito!

mercoledì 15 ottobre 2014

AI NUOVI ALUNNI DEL TONIOLO

Cari alunni del corso di Morale fondamentale, benvenuti nella dimora della teologia morale, dimora della verità e dell'autenticità! La teologia morale è quella scienza che ci insegna a vivere attraverso la proposta di norme che, se incarnate, ci conducono alla vita buona. La norma e il centro della teologia morale cristiana è Cristo. La legge dei cristiani non è altro che Cristo stesso in persona. Egli solo è il nostro Signore, il nostro Redentore. In Lui noi abbiamo la vita e perciò anche la legge della nostra vita. La vita cristiana non può concepirsi unicamente alla luce delle parole formulate nella legge, anzi, nemmeno alla luce della volontà di Dio come volontà esigente, in senso primario; ma sempre alla luce della volontà di Dio come volontà donante. Infatti il Padre ci ha donato tutto in Cristo. In Lui ci ha manifestato le ultime profondità del suo amore. E nell’amore di Cristo Egli chiede il nostro contraccambio e una vita veramente conformata a Cristo. La vita cristiana è imitazione di Cristo, non però un’imitazione di Cristo esterna, né solo un’imitazione esterna in amore e obbidienza, ma anzitutto vita in Cristo. Il punto di partenza fondamentale e primario di questa teologia morale è costituito da «i misteri dei figli di Dio», dalla nostra ontica incorporazione in Cristo mediante i sacramenti, mediante la vita divina in noi. L’uomo storico può essere compreso solo alla luce di Cristo, poiché Cristo è l’archetipo secondo il quale noi siamo stati creati e ricreati. «In Lui abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. Egli è immagine di Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, poiché in Lui furono create tutte le cose, in cielo e sulla terra, visibili e invisibili. Tutto è stato creato per mezzo di Lui e in vista di Lui » (Col 1, 14ss). La moralità cristiana, per conseguenza, dev’essere intesa e costruita in tutto dai grandi fatti primordiali della creazione «nella parola di Dio» e della Redenzione in Cristo. Essa è la vita che ci viene dalla vittoria di Cristo, in attesa della piena rivelazione del trionfo di Cristo nella parusia.
Egli è il capo del suo corpo, della chiesa» (Col. 1, 18). Essere in Cristo significa essere un membro del suo corpo, essere conquistati dal suo regno. Per questo, la morale cristiana deve mettere in evidenza in tutte le sue parti il carattere solidale e apostolico della salvezza. Vi chiedo di lasciarvi accompagnare nella conoscenza di Cristo, che non è altro che conoscere come vivere cristianamente. Benvenuti a bordo! Il vostro Prof. P. Carlo Baldini, passionista.

mercoledì 8 ottobre 2014

LEZIONE INTRODUTTIVA

PER IL CRISTIANESIMO È TEMPO DI USCIRE DALL’ANGOLO. La mia ricerca teologica da tempo si muove nell’alveo del rapporto fra cristia¬nesimo e cultura contemporanea, che viene definita cultura postmoderna. Intesa come cultura diffusa, luogo dove esercitiamo la nostra libertà. Anche il cristianesimo deve essere inteso non solo quello del Catechismo, delle encicliche, di manuali e saggi di teologia, ma soprattutto quello delle parrocchie, dei movimenti, delle associazioni, del credente di strada. Il nostro tempo è un tempo di gradi paradossi, di grandi contraddizione! Mai come in questo tempo sono vissuti così tanti geni teolo-gici (cattolici, protestanti, ortodossi), ma anche mai è iniziata a venir meno la capacità della chiesa di parlare alla e della vita della gente. Non è un segreto che la fede cristiana in occidente, continui a perdere di incidenza, di provocatorietà. E dove ancora resiste è una fede stanca, una fede senza gioia. Che cosa dunque è successo al cristianesimo? Che cosa ci è chie¬sto di fare per uscire da questa situazione che sembra l’avverarsi della triste profezia di Nietzsche (1844-1900) circa il monoteismo e del cristianesimo? Intorno a queste domande ruota questa mia lezione preliminare, dove cerco di dare delle risposte che siano plausibili. 1. Che cosa ci è successo Mi introduco con le parole di Umberto Galimberti, studioso attento alle problematiche del nostro tempo. «Gli uomini non hanno mai abitato il mondo, ma sempre e solo la descrizione che di volta in volta il mito, la religione, la filosofia, la scienza hanno dato del mondo. Una descrizione attraverso parole stabili, collocate ai confini dell’universo per la sua delimitazione e all’interno dell’universo per la sua articolazione» (L’ospite inquietante. Il nihilismo e i giovani, 2007). Questo è il punto: l’uomo abita sempre una descrizione del mondo fatta da parole stabili, password, pilastri dell’immaginazione, punti di sutura del suo rapporto con il reale Ed è proprio la diversa scelta e composizione delle parole stabili che regge la differente descrizione del mondo, per esempio di un orientale o di un aborigeno, rispetto a quella di un occidentale. «Basta avere almeno quarant’anni per percepire la sensazione di distacchi epocali da interi mondi di abitudini e di comportamenti perduti, e che si stanno completamente dimenticando» (Aldo Schiavone in Storia e destino, 2007). Gli occidentali sono cambiati nelle loro abitudini e nei loro comportamenti, nel loro modo di vivere e di sognare, di amare e di viaggiare, di lavorare e di attendere alla ricerca della felicità. Un mutamento rapido, repentino, radicale, di cui sfuggono le premesse. Tale cambiamento toglie letteralmente il fiato. Si tratta di un vero e proprio inedito Anche nella vita della chiesa è possibile verificare cambiamenti significativi. Pur essendo restato dentro un ambiente che non ha dismesso i segni della cristianità passato, nella maggior parte dei cristiani si è instaurato un regime di dualità tra la vita e la fede. La visione della fede e la preghiera non incidono più sul vissuto interiore e sul ritmo del quotidiano. Il caso emblematico è quello dei giovani, per i quali la fede sempre più rappresenta uno stadio dell’esperienza infantile. L’elemento religioso, quindi, pur non scomparso, assume una marginalità notevole. Ma come è potuto accadere tutto ciò? E così velocemente? 2. La perdita di ancoraggio e di coraggio Come rendere ragione del cambiamento che stanno attraversando la società e la chiesa? E’ necessario, secondo me, prendere atto che è cambiata la descrizione e, di conseguenza, il concetto di universo. Il cristianesimo ha, da una parte, perso un ancoraggio forte che aveva trovato nelle parole stabili della precedente descrizione dell’universo occidentale e, dall’altra, non ha ancora avuto il coraggio, se non per un breve momento (il Concilio Vaticano II), di confrontarsi seriamente con le nuove convinzioni che accompagnano ogni occidentale che entra nel mondo. Da metà ottocento, è infatti possibile constatare cinque grandi stagioni di mutazione culturale che hanno messo in discussione, una dopo l’altra, i concetti chiave, stabili e classici dell’universo. In realtà non si tratta di un processi inediti: si tratta del risorgere delle tensioni della modernità che, a causa delle guerre di religione, erano state sopite. La nuova configurazione del mondo si manifesta in tutta la sua forza a partire dalla rivoluzione culturale del sessantotto, la cui potenza di impatto è data proprio dalla lunga gestazione che la precede. Essa è così spiazzante per la chiesa, che le è mancata la lucidità di agganciarsi alle nuove possibilità che i cambiamenti repentini di volta in volta offrivano. Del resto nel sessantotto, il Concilio era già concluso. Entriamo nei particolari. Prima tappa. Charles Darwin (1809-1882) sgancia la comparsa dell’uomo sulla terra dal legame con Dio. Invita a considerare l’origine della specie umana, piuttosto che in direzione dell’alto (il paradiso), in direzione della comu¬ne parentela con altri animali. E’ un primo attacco alla cultura occidentale! Troviamo poi la prima (1864) e la seconda Internazionale (1896), che intendono trasformare la protesta di Marx (1818-1883), «non possiamo atten¬dere il paradiso!», in programma politico. Freud (1856-1839) riformula il concet¬to di "anima" quale centro di aggregazione energetico, spogliandolo di ogni aura trascendentale. L’avvio di quella che normalmente viene indicata come seconda rivoluzione industriale (tra il 1856 e il 1878 e si conclude nel 1890) getta le basi per quella espansione globale del mercato, di cui oggi siamo spettatori, a volte impauriti. In quegli anni si sviluppano, infatti, l’impresa della General Motors (1908) e quella della Ford (1903), nascono la Coca Cola (1886) e la Fiat (1899). La terra non viene più percepita quale valle di lacrime, ma come un posto nel quale ci si può agevolmente installare. Viene meno, sentenzia Nieztsche, il platonismo. Viene meno un modo di vedere e vivere il mondo secondo una duplicità di piani ontologici e assiologici (il mondo eterno e vero, da una parte; il mondo finito e finto, dall’altra) che assegnava una particolare finalità alla vita umana: l’uomo, dotato di un’anima eterna, aveva nel cielo la sua patria. Perde pertinenza immaginativa la parola "eternità", mentre assume una nuova risonanza e consistenza la "finitezza". La ricaduta nella coscienza religiosa di queste nuove concezioni fu enorme. Ci si chiede: come si può parlare più del destino escatologico dell’uomo, se non si sa più cosa sia l’eternità? Quale consistenza ontologica attribuire alla realtà di Dio? Non è più il finito a dover rendere ragione di sé rispetto all’eterno, ma esattamente il contrario. Tuttavia la spinta alla finitezza e alla storia non è senza rilievo per il cristianesimo: quale è il volto di Dio per la rivelazione evangelica, se non quello che passa attraverso l’incarnazione del Cristo? La seconda tappa di questa rimodulazione della cultura occidentale ha inizio nel primo decennio del Novecento. Accade che non appena il paradiso, ovvero la traduzione popolare della parola "eternità", viene messo tra parentesi, viene diluita anche la forza unificante e convergente. Il finito appare subito come luogo di molteplicità, di possibilità infinite, di plurale. Si colloca tra il 1905 e il 1908 una nuova stagione di rivisitazione della rappresentazione classica dell’occidente. E’ l’epoca di Einstein (1879-1855), di Picasso (1881-1973), di Schönberg (1874-1951), di Joyce (1882-1941) e di Proust (1871-1922), di Freud (1866-1939), di Thomas Mann (1875-1955) e di Pirandello (1867-1936), di Kafka (1883-1824), che ribalta ogni primato del vincitore sul vinto, del forte sulla vittima. E’ anche l’epoca di Kurt Gòdel (1906-1978), il quale sancisce l’impossibilità di rinvenire principi primi da cui derivare la matematica. Cosa non dire della fenomenologia di Husserl (1859-1838) e della rinascita del pensiero ebraico dell’alterità grazie a Buber (1878-1965) e a Rosenzweig (1886-1929)? Attraverso gli apporti di tutti costoro giunge a compimento la critica alla ragione moderna, troppo violenta, troppo autoreferenziale, e perde charme la parola "verità", al cui posto si installa il tema dell’alterità, dell’apertura e ospitalità del diverso. La coscienza del soggetto umano non è più un luogo dove abita solo una verità, ma diventa un "parlamentino": in essa ci sono tante voci, che si sovrap¬pongono e collidono. Non ci sfugga la portata della sfida: l’urgenza di pensare insieme alterità e verità ha portato alcuni settori della teologia a risco¬prire la forza del dogma della Trinità, dove l’unità della natura non sopprime la differenza delle persone. Siamo solo all’inizio di un pensiero e di una prassi trinitari. La terza tappa del viaggio che ci porta al nostro tempo è il campo di sterminio nazista di Auschwitz. Qui nel 1942, secondo un’ipotesi di Galimberti, nasce l’epoca della tecnica, la quale si caratterizza per il fatto che la ricerca finalizzata al potenziamento di mezzi più veloci per uccidere i prigionieri segna lo sganciamento della tecnica dal diretto legame con i bisogni del soggetto umano. Si impone l’assioma secon¬do il quale ciò che è tecnicamente sperimentabile va in ogni modo sperimentato: è l’avvio di quel processo di auto perfezionamento dei prodotti della ricerca tecnica, che prescinde dall’ambiente umano che però lo ridefinisce di continuo. Questo modello ha avuto subito successo per i grandi cambiamenti che ha realizzato nel miglioramento delle condizioni medie della vita degli occidentali, dall’igiene alla salute, dai viaggi alle comunicazioni, ma ha anche inciso su una certa concezione del mondo e della vita umana. Il mondo non è più un insieme di sostanze stabili e fisse, ma di relazioni; la vita non è fatto di faticose conquiste da preservare e migliorare, ma di possibilità, di occasioni. Che cosa ne è allora, per esempio, delle leggi naturali, in un mon¬do che non riconosce più alcun elemento di stabilità alle cose e agli individui? Qui salta in aria il primato dell’aristotelica sostanza, e con essa quello del "giusto mezzo" quale cardine delle virtù. Non dimentichiamo, poi, la forza dirompente dell’olocausto sul livello inconscio dell’immagine di Dio. Di fronte all’olocausto chi ha ragione: il prete che predica la creazione divina degli uomini o Darwin che dimostra la loro derivazione dalle scimmie? Chi ha ra¬gione: il catechista che proclama la santità dell’anima oppure Freud che la diagnostica quale pura energia disponibile tanto all’eros quanto al thanatos, all’amore e alla morte? Quale giustizia divina, quale paradiso, potrebbe risarcire le vittime di Hitler (1889-1945), di Mussolini (1883-1945) e di Stalin (1878-1953)? Muore il Dio della morale, il Dio che fonda la morale nella paura. Certo, viene lasciato libero lo spazio per l’annuncio del volto umano di Dio, fissato nelle parole e nella vita di Gesù, ma è una sfida, che la prassi ecclesiale spicciola fatica ancora ad assumere integralmente. La quarta tappa del percorso è il fatidico anno del sessantotto, l’anno in cui le istanze di Nietzsche diventano pane quotidiano del cittadino medio occidentale: l’istanza della singolarità, dell’unicità, della corporeità, della musica orgiastica, della scelta, dell’autonomia del soggetto. "Vietato vietare": ecco lo slogan del sessantotto, con il quale si attacca la tradizione culturale e morale del passato, giudicata eccessivamente irrispettosa della singolarità di ciascuno. Ognuno è per sé. E tutti sono uguali. Saltano in aria le forme di vita (matrimonio, paternità, maternità), i ritmi di vita (adolescenza, giovinezza, maturità), i mestieri. Cosa non dire dell’emancipazione sessuale e sociale della donna? Più in generale, ancora, in modo indiretto si può riconoscere in quella portentosa rivoluzione un attacco a un altro grande pilastro della tradizione cristiana e della tradizione occidentale, quello costituito dal pensiero di sant’Agostino e dalla parola "sacrificio": parola chiave, centrale nella descrizione occidentale del mondo, fino a quan¬do è rimasto un luogo della terra povero e con scarsa mobilità sociale, ovvero sino agli anni del boom economico. La quinta tappa del viaggio che ha deciso la ristrutturazione della mentalità occidentale riguarda la crisi dell’autorità, della legge, cioè del riconoscimento del vincolo della legge quale garanzia assoluta di una convivenza pacifica. Una decisa svolta contro il concetto di autorità può essere riscontrata: - nella rielaborazione della Seconda guerra mondiale, dove era più l’autorità della forza che non la forza dell’autorità, - nella lotta contro il terrorismo degli anni settanta, - nel crollo del muro di Berlino (novembre 1989), - negli scandali finanziari (in Italia legati all’indagine "Mani pulite"), - nel crollo delle Torri Gemelle, - nella recente e repentina mescolanza delle religioni e delle culture. Cosa è veramente cambiato? Il punto di sintesi è che nessuno oggi può avallare le sue idee semplicemente invocando il ruolo che riveste. Al posto dell’autorità sorge il tema della convinzione e la forma elementare della convivenza è quella della democrazia, cioè della libera determinazione del singolo. Da qui l’indebolimento della forma territoriale della presenza ecclesiale, dettata dal diritto canonico, a favore di una presenza de vita di fede nei movimenti, nelle associazioni, nelle comunità di base. E nessuno ancora sa come mettere insieme i due sistemi, divenuti ormai quasi paralleli. Si possono anche comprendere quei sentimenti di spaesamento e di precarietà che emergono in tutti i settori della vita. Che cosa è reale oggi? Quale nuovo ordine è sorto con l’arrivo delle nuove parole chiave dell’occidente: finitezza, alterità, tecnica, possibilità, democrazia? Non è facile dirlo. Resta in ogni caso un cambiamento, con tante conquiste, ma anche con grandi sfide davanti a sé. Pur in mezzo a un innegabile progresso e ad un vacillante benessere, l’occidente deve fare i conti con il crescente tasso di denatalità, l’impensabile blocco della gioventù, la subordinazione cui sono ancora costrette le donne sul piano delle opportunità sociali, lavorative e politiche, la stagnazione economica, la questione del rapporto con il diverso e quindi la sua nuova identità. Infine la sete di giustizia che brucia questo nostro mondo. Come dovrà collocarsi la comunità dei credenti rispetto a tutto ciò? 3. Che cosa dobbiamo fare Il compito del pensare teologico odierno deve consistere nell’assumere il ruolo di "mediatore" tra la storia (il tempo che ci è dato da vivere) e un vissuto cristiano che eviti la deriva dell’auto-referenzialità e della propria insistita particolarità. Pur nella fatica e precarietà dell’impresa, ci deve sorreggere la convinzione che è stata espressa in modo convincente da Elmar Salmann : «La fede non si rifugia nel fondo uguale di un essere immutabile, ma si espone alle peripezie dei tempi con la scommessa che nessun’epoca è priva della grazia, al contrario, ognuna è una porta che si apre al mistero cristiano» . Scommettiamo, allora, pascaliana¬mente su questo tempo. Un tempo di povertà. La comunità dei credenti non può arrendersi a questo tempo che la spoglia di tante sicurezze, in molti casi anche di sicurezze materiali: - scarsità di vocazioni, - poca gente a messa, - fatica generale nella catechesi. Questo è quello che è dato. Tante for¬me di reazione a questa situazione non appaiono convincenti: - voca¬zioni pescate all’estero; - mobilitazioni di massa per dire che si è ancora tanti, ma che alla fine fanno sentire di più il vuoto del quotidiano parrocchiale; - alleanze politiche assai discutibili, basate sull’archetipo maschile della condivisione del potere, che allontana dalla Chiesa i giovani e le donne; - cambiamenti della pastorale affidati a documenti perfetti piuttosto che a piccole sperimentazioni guidate, effettive. Serve, invece, il coraggio di riconoscere confessare la verità: la comunità dei credenti è diventata minoranza. Solo da questo gesto può rinascere un atto di coraggio, di libertà, di signorilità. Alla fine si tratta di resistenza. Resistenza alla tentazione, oggi assai ricorrente, di ridurre il cristianesi¬mo a religione civile, svuotandolo così della sua forza profetica. Resistenza alla sua progressiva museificazione ed ermeneutica infinita, che non lo rendono certo più significante. In questa condizione di povertà e di conseguen¬te dimagrimento dell’apparato ecclesiale, si potrà finalmente sperimentare che cosa è fede e reale affidamento a quel Dio che in Gesù si è reso umanissimo compagno di viaggio. Pur in mezzo a ogni grande povertà e spoliazione, non può essere tolto alla comunità dei credenti il suo bene più prezioso: Gesù, la sua santa umanità, riconci¬liata e riconciliante, liberata e liberante, benedetta e benedicente. La povertà confessata, dunque, come tempo opportuno per riscoprire la forza magnetica di Gesù e per rinascere alla verità che egli è misura colma della vita. E’ stato sempre lui la porta attraverso la quale sperare di poter vedere giorni felici. Un tempo di estraneità. Non può continuare, la comunità dei credenti, a fingere a se stessa con la solennità delle sue celebrazioni, con la fierezza dei suoi linguaggi, con lo stipendio di sacramenti, che il tempo aggiusterà ogni cosa. Molti simboli cristiani «hanno perso il potere di trafiggere l’anima: di rendere inquieti, ansiosi, disperati, gioiosi, estatici, ricettivi nei confronti del significato» . Eppure, la fede cristiana avrebbe una plasticità straordinaria! Si pensi al salto dimensionale che i discepoli le fanno compiere dal parlato aramaico di Gesù al greco dei Vangeli. Si sono arresi alla non trasmissibilità dell’aramaico! Hanno rischiato, eccome. Ma non si sono fissati. La traduzione culturale del cristianesimo occidentale oggi vigente, fortemente sacramentalista, gerarchica, sacrale, non regge più. Ovviamente accettando, arrendendosi, senza risentimento a questa nuova forma di povertà: l’estraneità di un modello di cristianesimo, provando a salvarne il meglio. Non è un bene, ma non è neppure il peggiore dei mali possibili. Resistenza al rendere il cristianesimo una estetica, al renderlo un’esperienza individuale, nel senso di un’esperienza in cui il singolo decide della verità di ciò che viene annunciato, celebrato, vissuto. Resistenza a una perdita di memoria della fede nelle nuove generazioni: se non si accetta che per loro è un fatto estraneo, si continuerà a occuparsi ossessivamente di morale, di dottrine sociali, di bioetica, mentre il cuore incandescente del cristianesimo resta in soffitta. Partire dal riconoscimento di questa estraneità significherebbe invece che i credenti sono chiamati ad annunciare una novità. Questa è una grande possibilità. Qui ci vuole resistenza: il cristianesimo non è vecchio, non è passato, non è old. La Chiesa, forse, sì! Duemila anni non sono pochi. Ma la Bibbia e il Vangelo sono ancora ben lontani dall’avere esaurito la capacità di illuminare l’umano che è comune. Un tempo di precarietà. Tutto cambia molto velocemente. Si è posti continuamente dinanzi a mutazioni politiche, economiche e sociali imprevedibili Si è raggiunti da tante notizie e sopraffatti dalle mille voci che entrano dentro il nostro spirito, inquietandolo. Non c’è solo una precarietà lavorativa, finanziaria, c’e pure una precarietà dello spirito, che tocca in sorte a ciascuno. In particolare, l’etica registra un’medita fatica nel fare i conti con le conquiste delle biotecnologie e con le grandi questioni legate al fine vita, al contenimento delle malattie sessualmente trasmissibili. Possono sul serio i responsabili della comunità dei credenti ritenere di avere una parola decisiva per tutto? Un’idea così vincolante da satu¬rare il lavoro del singolo? Domande delicate, certo, e per questo vanno poste in punta di piedi, nella consapevolezza che non sempre la chiarezza delle norme e le norme della chiarezza possano risolvere ogni questione. Si dovrebbe invece mettere più in rilievo la forza elevante, unifi¬cante che possiede il gesto della preghiera. Con più generosità si dovrebbero offrire occasioni elementari di preghiera: - nelle quali poter ritornare sulla verità del proprio essere e agire, - nelle quali potersi ri¬conciliare con la bellezza del mondo e della vita, per pensare e per entrare in contatto con una presenza Altra e alta, con quella «luce gen¬tile», di cui parlò il beato J. H. Newman (1801-1890), - occasioni per incontrare quel Dio ignoto ai più oggi, cui poter finalmente elevare una preghiera che sostenga il precario essere al mondo di ogni uomo e di ogni donna. Un tempo di inattualità. La comunità dei credenti deve accettare, arrendendosi, che non è più di moda la religione cristiana. Per la maggior parte della gente, "quelli della Chiesa" cercano e propongo¬no cose vecchie, fuori moda, fuori gusto, fuori del mondo. Ane¬lano a cose fuori del mondo. Il paradiso, per esempio. Sono gli ultimi, i credenti, a essere convinti che esso non sia nel mondo, né che sia il mondo. Il paradiso invece è qui, su questa terra, e si chiama giovinez-za. Chi la possiede, nulla gli manca. Al centro dell’attuale condiviso immaginario vi è il culto e il mito della giovinezza. Nessuno e interes¬sato alla vecchiaia, alla morte. Si vuole vita, vita piena, vita giovane da qui un continuo vivere "contromano". La fede cristiana e inattuale! Fissa lo sguardo dove nessuno guarda. Lo debbono sapere questo, i cristiani non solo sono estranei, sono inattuali. Debbono sapere di questa resistenza alla loro parola circa la verità e il destino della vita. Debbono arrendersi a questa resistenza, per poter sperare di resistere a essa. La ricerca della giovinezza oggi è ossessiva: nessun occidentale desidera diventare adulto, meno che mai vecchio. La parola "vecchiaia" è scomparsa pure da Wikipedia, la grande enciclopedia di internet. La Chiesa continua a chiamare i suoi ministri "preti", alla lettera: vecchi! L’atteggiamento giusto è quello della resistenza, non quello del risentimento! Si deve resistere anche alla dissoluzione del paradiso nella giovinezza. Un minimo di platonismo è qui necessario alla religione cristiana: il finito non regge alle sue pretese. Ha bisogno di una forza che da se stesso non sa darsi. Senza la misura del paradiso, si perde la misura del finito, del mondo, della sua contingenza, della sua ricchezza e della sua positiva limitatezza. Ecco allora il dispiegarsi di una feconda inattualità del cristianesi¬mo, di una sua conveniente estraneità: la sua denuncia decisa, profetica, che questo mondo non è il paradiso, ma che il paradiso esiste e si deve immaginare là dove esso sta. Per questo si può amare anche l’età adul¬ta, si può accogliere senza risentimento e rancore l’invecchiamento, la malattia e la morte. Si può essere liberi di non essere giovani e di passare ad altri il testimone della vita. Un tempo di debolezza. Va riconosciuto che la chiesa non è più al centro del mondo, della socie¬tà e dell’immaginario diffuso. La chiesa non è più nella cabina della regia della storia. Nessuno quasi attende più da essa il via libera per alcunché. Non ha senso far finta di nulla e stare in attesa che le cose ritornino come prima. La sua situazione di debolezza nei rapporti con la società, con le forze politiche, con l’avanzare delle nuove minoranze va accettata. Un passo indietro farebbe bene. Si torni alla verità dell’essere chiesa: luogo dove ci si trova a far festa per un Dio che ha un debole per l’uomo. Questa è la vera debo¬lezza della fede. Si torni a una chiesa della festa, esperienza antropo¬logica centrale, che permette all’uomo e alla donna di resistere alle schiavitù, alle idolatrie, alla depressione strisciante che da ogni dove oggi li tenta. Un uomo, una donna capaci di far festa sono un uomo e una donna liberi, capaci di un debole per la vita, capaci di un debole per l’altro. In un’intervista del 2011 al quotidiano «Avvenire», Jùrgen Moltmann (n. 1926) ha affermato: «Già troppo a lungo la gente ha relegato il cristianesimo nell’angolo della fede per proseguire indisturbata la secolarizzazione. E’ tempo che la fede cristiana esca dall’angolo: Cristo non ha fondato una nuova religione, ma ha portato una vita nuova!». Questo forse è il tempo opportuno per prendere sul serio tale provocazione.